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ACHILLE BONITO OLIVA

ICONE SULL'ORLO DEL DOLORE, QUASI

La figura è il punto focale dell'arte, detiene la centralità del linguaggio, in quanto è portatrice dell'intenzione e del desiderio di potenza dell'immaginario. Tale desiderio si traveste mediante abbigliamenti vari, indossa i panni della circostanza legata alla necessità espressiva. Dunque le figure dell'arte sono svariate e cangianti, adottano molti materiali e tecniche diverse per presentarsi sotto lo sguardo dello spettatore. In ogni caso sono portatrici di seduzione e abbaglio. Daria Paladino adotta il ritratto come mezzo espressivo.

Perché l’arte non trattiene il suo linguaggio sul piano della comunicazione comune, non parla attraverso maschere che appartengono al quotidiano, bensì assume sempre stati di forma originali e imprevedibili. La seduzione nasce dal bisogno di creare un varco e un lampo nel pratico inerte del quotidiano, uno stupore che lacera l'orizzontale impermeabilità attraversante lo scambio sociale. La figura è l'assunzione eccentrica di un’apparenza particolare che regge la pulsione dell'arte.

Nell’opera di D.P. la figura serve proprio a marcare la soglia, il solco naturale che separa l'apparizione dell'arte da altre apparizioni. La qualità specifica, la sua connotazione, risiede nel suo essere esplicitamente apparenza. Un'apparenza che indossa continuamente particolari travestimenti, che inducono lo sguardo a rimanere sbarrato e attraversato da un lampo silenzioso. La sua forza risiede nel suo presentarsi senza sforzo, nello sfarzo di un abbigliamento che non denuncia mai difficoltà semmai un naturale abbandono davanti all’occhio fotografico e alla mano della pittrice.

"L'arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell'uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce" (G. Bateson, Stile, grazia e informazione). L'estasi prende innanzitutto l’artista, quello stato particolare e necessario affinché egli possa portare il travestimento dell'immagine nella condizione della epifania. Allora anche l'occhio esterno, quello contemplatore, è attraversato da uno stato estatico che lo mette nella possibilità di una nuova informazione sull’identità del soggetto ritratto.

La figura, il sintomo di una particolare inclinazione di D.P. nella sua ritrattistica, quella di operare tra bisogno della catastrofe e la "saggezza sistemica", tra la produzione di una rottura e la spinta a destinarla al corpo sociale. Esiste una inerzia iniziale contro cui l'artista si arma, una "serenità" della comunicazione che essa tende a alterare mediante l'introduzione di uno stato di "turbolenza" determinata dal desiderio di contatto dell’artista con i suoi modelli. Da qui la frontalità dell’immagine e il suo spietato ingrandimento.

La turbolenza è data dall’ epifania dell'immagine che rompe le aspettative e introduce, mediante l'irruzione di un linguaggio piegato a esigenze di particolare espressività, un elemento allarmante. La figura dunque è il perturbante, ciò che determina il segnale di un allarme che attraversa tutto il linguaggio e l'immaginario sociale. Nello stesso tempo il desiderio di profonda relazione con il mondo prende il sopravvento nell'artista, sostenuta da una saggezza sistemica che tende a spingerla verso una correzione della rottura iniziale, a riparare alla radicale e solitaria violenza dell’immaginario individuale.

Qui la figura serve a produrre un cuneo, un varco, tra la serenità della comunicazione sociale e la turbolenza del gesto artistico, in maniera da favorire un'apparizione che trovi ammirazione e non incomprensione o paura. Il travestimento che la figura assume può passare attraverso varie maschere, che alcune volte incutono anche terrore. Ma il fine è sempre quello di introdurre un'attesa, una sospensione di difese del gusto, che permettano poi la grande entrata nel mondo, sotto occhi attenti e ammirati, pronti a cogliere la differenza.

L'arte non sopporta l'indifferenza, la distrazione di uno sguardo che si pone in una condizione inerte. Perciò la figura introduce sempre la bellezza che, come dice Leon Battista Alberti, è una forma di difesa. Difesa dall'inerzia del quotidiano e dalla possibilità di scacco da parte di sguardi indifferenti che non restano abbagliati alla sua apparizione abbacinante. La sorpresa, la proverbiale eccentricità dell'arte, sono i movimenti tattici di una strategia rivolta a consolidare la differenza dell'immagine artistica dalle altre immagini, tra il bianco e il nero della pittura e il tecnicolor del mondo.

"Io domando all'arte di farmi sfuggire dalla società degli uomini per introdurmi in un'altra società" (C. Lévi-Strauss). Questo non è un desiderio di evasione, non è un tentativo di sfuggire la realtà, bensì il tentativo di introdursi in un altro spazio, di allargare un varco che normalmente sembra precluso. L'arte di D.P. corregge la vista corta e introduce una guardata non più frontale, ma lunga e differenziata guardata. Così può aggirare l'invalicabile frontalità delle cose.

La macchina della rappresentazione è costituita da molte parti, alcune sfuggono all’attenzione stessa dell’artista che si trova spesso nella condizione di dover accettare elementi indipendenti dalla concentrazione o dal suo controllo, emergenti per una sorta di crescita spontanea che può prendere alle spalle l’artista stesso. La figura è il risultato di una concitazione creative che attraversa il campo fantastico dell’artista e lo mette nella condizione di poterne divenire il tramite.

In D.P. essa è l’esempio splendente di una nostalgia, quella dell’unità che spesso l’artista stesso non vuole raggiungere. L’unità è una sorta di procedimento obbligato, la finzione assunta dal processo creativo per mettersi in movimento e tendere in tal modo verso una meta. L’arte adotta l’astuzia biologica di crearsi una intenzionalità per meglio distendersi nella sua azione. In realtà adotta il modello demiurgico della creazione, mediante cui sembra svolgere un progetto consapevole e uniforme.

L’estasi è lo stato che consente all’artista di amalgamare e portare a compimento la figura, il cuore espressivo dell'opera. Dallo stupore nasce la possibilità di non fare resistenze, di accettare tra le mani elementi e frammenti che provengono da recessi luminosi e oscuri. La tecnica dell’ingrandimento dell’immagine quasi fino all’astrazione (come nei primi piani dei ritratti di Chuck Close) è intanto la condizione di abbandono indispensabile per sopportare l'apparizione del soggetto, che compare agli occhi dell'artista mediante la combinazione e la simultaneità di molte provenienze.

Paradossalmente la figura non è mai ripetibile, perché non ripetibile il movimento che porta alla sua definizione. È possibile riconoscere la cifra che accompagna i suoi travestimenti, ma soltanto per indicare la fonte da cui proviene il suo passaggio. L'artista può aggiungere un margine di finzione, una partecipazione tecnica utile alla definizione dell'immagine, ma non può supplire e riempire da solo, con la sola perizia, lo spazio che intercorre tra i vari frammenti che costituiscono l'opera.

In D.P. esiste una metafisica della figura che non lascia transitare oltre un certo confine la conoscenza, che può al massimo stazionare nell'ambito di una semiotica della grazia, del potere dello sguardo di scorrere sulle superfici della figura e rintracciare un nuovo canone di bellezza fondato sull’irripetibile unicità fisiognomica del modello, senza un giudizio. Qui l'occhio assedia frontalmente l'immagine, ne corteggia le fattezze, ma senza entrare in contatto con il movimento interiore che ne fonda l’apparizione. Epifania di volti osservati in primissimo piano, scrutati fin nei dettagli ai confini e sull’orlo di un dolore intimo e consapevole dei modelli che l’arte documenta impietosamente. Sono infatti le icone di grandi artisti e personaggi della cultura, colte ai confini di una profondità inaccessibile.

Quasi

 

Achille Bonito Oliva

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LAURA CHERUBINI

RITRATTI ASSOLUTI

L’iperbole dei personaggi

 

“Se ho la curva dell’occhio, avrò anche l’orbita; se ho l’orbita ho la radice del naso, ho la punta del naso, ho i fori del naso, ho la bocca. Dunque il tutto potrebbe comunque alla fine dare uno sguardo, senza che ci si fissi sull’occhio stesso”

Alberto Giacometti

 

“Prima di ogni altra cosa, il ritratto guarda: non fa che questo, vi si concentra, vi si invia e vi si perde”

Jean-Luc Nancy

 

L’anima del ritratto

 

“Ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell’artista, non del modello. Il modello è soltanto il pretesto, l’occasione. Non è lui che il pittore rivela; piuttosto è il pittore che, sulla tela dipinta, rivela se stesso. Il motivo per cui non voglio esporre questo ritratto è che credo di averci messo il segreto della mia anima”: così dice l’artista Basil Hallward allo scettico Lord Henry estasiato davanti al quadro che considera il capolavoro dell’artista e che ritrae un magnifico giovane nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Poi si sa come andrà a finire: il bellissimo Dorian Gray sigla, quasi inconsapevolmente, un patto col diavolo per l’eterna giovinezza, vende l’anima. Qualcun altro invecchierà al suo posto. Corrotto dalle ciniche teorie di Lord Henry e da un misterioso e non ben identificato libro dalla copertina gialla che lo stesso Lord gli dona, Dorian si da a una vita di scelleratezze mantenendo una splendente bellezza, mentre il suo ritratto porta i segni dell’invecchiamento e della vita dissoluta. Dorian arriva fino al delitto. “Vedere la mia anima!” dice a Basil Hallward che cerca in lui una disconferma alle tremende dicerie sul suo conto “la vedrai tu stesso, stasera!”. Lo conduce davanti al quadro ormai mostruoso e lo uccide. Infine Dorian tenta di eliminare il quadro, quel suo doppio da cui si sente perseguitato. “Afferrò il coltello e pugnalò il ritratto”. Ma è lui a morire: l’Altro si rivela lo Stesso. La figura nel quadro riacquista l’antica bellezza, mentre Dorian giace a terra morto e orribile. “Fu solo dopo aver osservato attentamente gli anelli che riconobbero chi era”: sono queste le ultime parole del racconto.

La splendida parabola di Oscar Wilde, una vera favola per adulti, è tutta basata su un’antica teoria, propria a tutte le discipline ermetiche ed esoteriche: che l’immagine contenga realmente qualcosa dell’idea, che l’anima sia in essa imprigionata. E’ questa la forza dell’immagine. Un ritratto dunque è, magicamente, in qualche modo, la persona ritratta. Ma vera è anche l’affermazione dell’alter ego di Wilde, Basil Hallward (come dice lo stesso scrittore tutti e tre i personaggi principali in qualche modo lo sono: Basil è come lui si vede, Lord Henry è come gli altri lo vedono e Dorian come lui vorrebbe essere), ogni ritratto è al tempo stesso un autoritratto. Ogni ritratto è dunque un doppio ritratto, del soggetto dipinto e del soggetto che dipinge.

 

Lo sguardo del ritratto

 

“Qual è il soggetto del ritratto? Nessun altro che il soggetto stesso, assolutamente. Dov’è che il soggetto stesso ha la sua verità e la sua effettività? In nessuna altro luogo che non sia il ritratto” (Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002). Il ritratto è dunque assoluto. Nel ritratto il soggetto emerge in solitudine dallo sfondo e qualunque altra cosa faccia la sua apparizione nel campo del quadro è attributo, oggetto simbolico, ciò che meglio può servire a qualificarlo. Se c’è un’ambientazione non può essere casuale. Tutto ci parla del soggetto.

“L’oggetto del ritratto è in senso stretto il soggetto assoluto: del tutto staccato da ciò che non è lui stesso, del tutto ritirato dall’esteriorità” (Jean-Luc Nancy). Infatti anche gli elementi esterni parlano dell’interiorità del soggetto ritratto. Tutto il quadro si organizza intorno alla figura. La figura in genere si accampa anche spazialmente al centro del quadro. “Il vero ritratto dunque si limita alla categoria del ‘ritratto autonomo’, come la chiamano gli storici dell’arte, quello in cui il personaggio rappresentato non è colto in nessuna azione e non sopporta nessuna espressione che non riconduca alla persona stessa” (Jean-Luc Nancy). Il ritratto non esaurisce se stesso nello svelamento dell’identità dell’io. Il discorso della pittura passa attraverso il ritratto. In francese il termine ritratto, portrait, inizialmente designa tutta la pittura. E’ anche possibile “che nulla circondi la figura e che l’ ‘organizzazione’ del quadro tenda verso il semplice distacco della suddetta figura da un fondo monocromo che vale tanto quanto un’assenza di fondo” (Jean-Luc Nancy).

 

Figure

 

La figura umana si accampa fin dall’inizio nei quadri di Daria Paladino. Tra le prime prove c’è anche una scultura che rappresenta un volto umano. Nei primi lavori Daria Paladino usa i colori acrilici, mentre le ultime opere sono dipinte a olio con smalto su tela. Quasi naturalmente le immagini cominciano a configurarsi come ritratti.

La fonte di questi ritratti, eseguiti dal 2007 a oggi, è fotografica. Il ritratto è un genere che la fotografia ha praticato fin dai suoi inizi. “Il primo obiettivo progettato espressamente per la macchina fotografica fu l’obiettivo per ritratti, creato da Petzval nel 1840” (Beaumont Newhall, Storia della fotografia, Giulio Einaudi Editore, Torino 1984). Nel 1851 la scoperta di un metodo per sensibilizzare le lastre con sali d’argento e collodio (una soluzione di nitrocellulosa in alcool ed etere) apre una nuova era nella tecnica  fotografica. Il colpo di grazia alla tecnica del dagherrotipo viene assestato proprio da una delle applicazioni al metodo del collodio: la fotografia carte-de-visite brevettata in Francia nel 1854 da André-Adolphe-Eugène Disderi. Si trattava di piccoli ritratti del formato del biglietto da visita. La cosiddetta “cardomania” invade l’Inghilterra e l’America. Nasce un vero e proprio rituale della seduta in posa. “La diffusione negli anni ’50 del collodio, che ridurrà miracolosamente a due soli secondi il tempo di posa, cambierà d’improvviso e inevitabilmente l’iconografia stessa, la rappresentazione e l’apparenza della realtà, di fatto la sua concezione” (Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Edizioni Bruno Mondadori, Torino 1998). Nadar individua “l’istante decisivo per lo scatto, quello che coglie la sintesi di un’intera personalità” (Grazioli). Più avanti la ricerca fotografica sul ritratto è portata avanti da fotografi come Edward Steichen, Irving Penn, Richard Avedon. Steichen coglie il momento in cui “una fisionomia rivela il carattere di una persona” (Newhall). Penn e Avedon interpretano la personalità del modello.        

Tuttavia in un ritratto in pittura c’è qualcosa in più che in un ritratto fotografico.

 

Personaggi

 

“La mia ricerca è nel riuscire a rappresentare la personalità interiore dei soggetti, nella loro unicità e grandezza, che spesso trova limiti nella dimensione della tela”. Questa dichiarazione di intenti di Daria Paladino è programmatica, indica la strada che la sua pittura segue.

Daria Paladino ritrae persone che hanno a che fare con l’ambiente artistico. Deve comunque trovare un’immagine che ritiene interessante. Ad esempio, nel caso di Dario Fo, leggermente fuori tema rispetto agli altri ritratti che riguardano il mondo delle arti visive, l’artista si è imbattuta in un’immagine da cui si sente subito astratta. Alcune immagini vengono comunque modificate.

I protagonisti dei ritratti di Daria Paladino sono personaggi megalomani nel loro contesto, imponenti. E hanno anche un’altra importante caratteristica, ti osservano ovunque tu vada. “Voglio che vengano fuori potenti” dice Daria Paladino “Se potessi li farei ancora più grandi”. Alla base c’è un’idea statuaria e monumentale. Giganteggiano sulla tela bianca.

Memmo Mancini, come dice Daria, è il mito di tutti gli artisti. E’ il “coloraio” che dispensa materie prime e consigli. La sua bottega è stata ed è un punto di incontro per tutti gli artisti a Roma e Memmo è stato per tutti un amico: da Balthus a Mario Schifano, da Franco Angeli a Mimmo Paladino. E’ ritratto in posa plastica e ripreso in un’espressione tipica. “E’ la mia guest star” dice Daria Paladino. Per questo ritratto l’artista si è ispirata al ritratto che Vincent Van Gogh fece al suo fornitore di colori Tanguy. Tracey Emin è invece un mito in fatto di trasgressione e stravaganza. Il ritratto è in bianco e nero, i lineamenti marcati, il volto intenso.

Jean-Michel Basquiat è su una sedia, chino, in quello che uno storico dell’arte definirebbe una posa melanconica, il mento sulla mano. Sulle sue ginocchia e in analogia con lui il gatto sembra assomigliargli. Vivienne Westwood appare egocentrica, il viso è quasi coperto dalle mani, il ritratto è a colori. E’ una figura-ponte: si stacca dal mondo della moda per entrare in quello dell’arte. Ha contribuito a creare uno stile punk. Molte sue creazioni traggono ispirazione dalla storia del costume dei secoli XVII e XVIII. Ad esempio ha rilanciato un elemento che sembrava obsoleto come il corsetto. Molto intenso e attraversato da luci e ombre è il ritratto del fotografo Claudio Abate. Enzo Cucchi è, per Daria Paladino, il personaggio dell’artista per eccellenza. Del suo ritratto dice: “Mi piaceva il contrasto che avevo visto nell’immagine, se avessi tolto i colori gli avrei sottratto personalità”. Daria Paladino usa infatti sia il colore che il bianco e nero e a volte li fonde all’interno della stessa opera. Le mani di Cucchi, lunghe e affusolate, fanno da cornice al volto. Cucchi è un maestro del disegno, e in effetti questo è uno dei ritratti più disegnati, quasi in omaggio al soggetto.

 

Caratteri stilistici

  

In più di un’occasione ritrae Picasso che sembra interessarla soprattutto come personaggio (nel 2008 il volto a colori, nel 2009 la figura seduta, tagliata all’altezza dei fianchi, in bianco e nero). Con Picasso e Bacon Daria Paladino dichiara i suoi punti di riferimento pittorici a cui si può aggiungere Lucien Freud. Marina Abramovic è ripresa nuda, con cappello e bastone da partigiana e una stella sanguinante sul ventre. La prima volta in cui Marina Abramovic ha inciso una stella a cinque punte con un rasoio sul proprio addome è stato nell’ambito della performance Thomas Lips nel 1975 alla galleria Krinzinger di Innsbruck. Dello stesso anno è una sua foto in cui interpreta la figura di una partigiana (i suoi genitori erano stati partigiani nell’ex-Jugoslavia) indossando il berretto con la stella a cinque punte. La stessa stella era stata costruita e poi bruciata da Abramovic sul pavimento del centro culturale studentesco di Belgrado per una delle sue prime performance (Rhythm 5, 1974): alla fine l’artista giaceva all’interno della stella. Alla festa per il suo cinquantesimo compleanno viene servita una torta di marzapane che riproduce life-size il corpo dell’artista con una stella di cioccolato sull’addome: il ricordo di quella scioccante performance accompagna ancora e sempre Marina Abramovic.

L’immagine di Damien Hirst è disturbante, è l’immagine molto nota e diffusa di una smorfia. “Nulla, se si vuole esaminare bene la cosa, è indifferente in un ritratto. Il gesto, la smorfia, il vestito, gli stessi ornamenti, tutto deve servire a rappresentare un carattere” aveva scritto Charles Baudelaire in un testo sul ritratto per l’Esposizione del 1859.

Daria Paladino è alla ricerca del personaggio anche quando apparentemente non c’è.  Gioca sulle dimensioni, vuole colpire lo spettatore. Conferisce ai personaggi posizioni scenografiche, da cinema. Li vuole invadenti. Carica a volte il loro personaggio. Ha fotografato l’artista malese Lim e l’ha trasformato in samurai.

Non vuole i personaggi al loro meglio, pensa invece di tirare fuori la loro vera personalità. In genere non ritrae la figura intera, ma la figura fino a i fianchi o il solo viso, che dilata sulla superficie fino a farne perdere i confini, come (come il volto gigante di Francis Bacon, 2007 o quello di Yue Minjun ridente e di Dario Fo sorridente, entrambi del 2009). Quello che Daria Paladino dipinge è un mondo già riprodotto, già passato attraverso il filtro della macchina fotografica e visto attraverso le sue inquadrature.

Il ritratto di Chuck Close è particolarmente significativo. Chuck Close è uno dei grandi ritrattisti dell’arte contemporanea ed è in un certo senso un precursore di quella linea in cui Daria Paladino si inserisce: grandi ritratti con impostazione fissa frontale e tecnica molto dettagliata di tipo iperrealista . Nel 1988 una malattia ha fatto sì che Close rimanesse semiparalizzato, ma l’artista ha continuato a dipingere prima tenendo il pennello tra i denti e poi, quando ha parzialmente riacquistato il movimento delle braccia, legando il pennello alla mano. La sua tecnica non può più essere tanto meticolosa, ma in realtà Close stava già superando la fase più strettamente iperrealista, riuscendo però ugualmente a ottenere effetti di grande realismo. Nel ritratto di Daria Paladino Chuck Close ci guarda fissamente. Giulio Paolini con Giovane che guarda Lorenzo Lotto ci ha insegnato che ogni personaggio ritratto ci guarda, come una volta ha guardato chi lo ritraeva. La giacca scura di Close è aperta sul petto mettendo in mostra una maglia bianca su cui si situa un altro ritratto, anch’esso frontale. Un doppio ritratto.  

Interessante l’operazione che Daria Paladino conduce su Andy Warhol. La sua faccia è troppo nota, per cui l’artista pensa di realizzare un taglio di tipo fotografico: elimina gli occhi e ritrae la parte inferiore del volto. Il punto di vista è dall’alto verso il basso e l’inquadratura include una inedita porzione del corpo che va dal naso al busto.

Nonostante i tanti legami con il linguaggio fotografico Daria Paladino sceglie la via del ritratto con la pittura perché pensa che questo mezzo dia più anima ai personaggi. “La fotografia è troppo bidimensionale” dice “Non ti guarderebbe mai come ti guarda lui”. 

 

Laura Cherubini  

“Each portrait painted with emotion is a portrait of the artist itself, not a portrait of the model. The model is just an excuse.”

The words of Basil in Oscar Wilde’s “picture of Dorian Gray” emerge powerfully in front of Daria Paladino’s paintings, we recognize those words firstly by the choice of the subjects, that have a leading role in the artistic world. “ I want them to come out mighty” she says, “I would make them even bigger if I could”. On top of it there is a monumental idea, faces that tower above the white canvas “attempting to represent  the subject’s interior personality, in their greatness and uniqueness, that often finds a limit in the size of the canvas”.

Daria Paladino’s statement of intent is consistent with her oeuvre, which in relation to the spectator does a further step forward by giving her subjects scenographic postures, special cuts, in a “Megalomaniac” context.  She wants them to be obtrusive, and she achieves her goal not only playing with dimensions , but also with another  important feature: Those faces stare at you wherever you are.

The famous Italian artist Giulio Paolini with ‘Giovane che guarda Lorenzo Lotto’ taught us that each portrayed subject observes us, like once observed who portrayed them. This interesting operation that Daria Paladino conducts on various artists, like Basquiat, Chuck Close, the italian Enzo Cucchi, Marina Abramovic, Damien Hirst, Francis Bacon, going through the greats of contemporary art , including, among others, Memmo Mancini, the ‘colourist’ owner of a famous fine arts shop in Rome deemed to be the equivalent of Père Tanguy for the greatest Italian artists, who worked with masters such as Schifano, Guttuso, Balthus and many more. “He’s my Guest star” Daria Paldino says.

She chooses him, not Picasso, who portrays in more than one occasion, nor Andy Warhol, on which she takes away the crown of his fame by leaving his lower portion grimacing. She claims that his face is extremely notorious, so she takes away the eyes of the subject in a photographic cut, world that she tributes with an intense portrait of the photographer Claudio Abate, crossed by light and shade.

Despite of the many connections with photographic language, primary source of her portraits, Daria Paladino, in searching for the soul in a face, chooses painting because “Photography is two-dimensional” she says, looking at one of her portraits. “It would never look at you the way he does”

Laura Cherubini

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